Oggi vi segnalo un nuovo romanzo di un'autrice la cui carriera letteraria è già avviata in campo poetico!
Titolo: “Myosotis. Insieme, vita dopo vita”
Autore: Elisa U. Staderini
Editore: PSEditore
Data di pubblicazione: 7 Dic 2016
Il book trailer: https://www.youtube.com/watch?v=sefr5AGLgKw
Il link per scaricare l'estratto: http://www.fiorentinisicresce.it/sito/1/Myosotis/
Sinossi
A
metà strada tra l’autobiografia e il sogno, il romanzo si muove lungo un
binario che attraversa la linea del tempo per raggiungere il presente. Quattro
sono le vicende che, ambientate in epoche diverse, si alternano e si
intrecciano per dare ai personaggi nuova vita e strumenti utili a risolvere gli
antichi attriti. Attraverso il trascorrere dei secoli e il cambio di ruolo
nelle relazioni, dalla lontana Creta minoica a una Toscana medievale, passando
dalla Firenze barocca, si apre davanti ai protagonisti un cammino nella consapevolezza,
che li aiuterà a sanare le ferite dell’anima con l’arma più potente, l’amore.
Colui che ha tolto la
vita saprà restituirla e l’assassino diventerà padre della sua stessa vittima.
L'AUTRICE
Elisa
Staderini coltiva da sempre la passione per la scrittura. Nel 2003 vince il
concorso di poesia G. Pescetti con “Marzo” pubblicata sul volume Alfieri della
poesia. Nel 2004 “La mia stella perduta” esce sull’antologia poetica Dedicato
a… ed. Aletti. Nel 2006 la poesia “Ti sposo” viene inserita nell’antologia
Verrà il mattino e avrà un tuo verso, ed. Aletti. Nel 2008 scrive e illustra il
libro per bambini “Anticorpolandia” edito da EdiGiò. Nel 2009 vince una nuova
selezione di ed. Aletti con “Notte isolana” pubblicata nell’Enciclopedia dei
poeti italiani contemporanei. Nel 2012 esce il suo racconto “Profezie” nel
libro Volevo fare la casalinga… e invece sono una donna in carriera, Ed. Albus.
Dal 2010 gestisce il portale web per le famiglie con bambini
www.fiorentinisicresce.it e inizia un percorso di crescita personale e di
risveglio spirituale che la porta ad esplorare la regressione alle vite
passate.
Dopo
aver conseguito una formazione nel campo motivazionale, di crescita personale e
Programmazione Neuro Lingui -stica, Elisa Staderini intraprende un cammino più
spirituale a partire dai seminari “Past Life Regression Therapy” dello
psichiatra americano Brian Weiss, massimo esperto nel campo delle regressioni
alle vite passate.
Certificata
“Angelic Realm Reader” in seguito ai corsi della psicologa Dr.ssa Doreen
Virtue, si è aperta all’Universo e alle sue connessioni riscoprendo la naturale
comunicazione con l’inconscio, con la propria parte autentica e con le Ener-gie
di Luce diventando canale “Oracolo Christallin” grazie alla formazione di Iwona
Sliwocka e Roberto Dondoli.
Esperta di “Omega
Healing” del Dott. Roy Martina, medico tradizionale ed olistico autore di
numerosi best-seller, Elisa utilizza tecniche per aiutare le persone a
rilasciare emozioni negative, per affrontare problemi fisici ed emotivi e per
vi-vere più felici. Oltre all’equilibrio emozionale, al theta coa-ching, alla
canalizzazione e alla lettura di carte angeliche, lavora con
laregressione alle vite passateaccompagnando i clienti in stati di rilassamento
profondo per risolvere traumi radicati nel passato.
Visita la sua pagina: https://www.facebook.com/ESistenzaElisaStaderini
Elisa Staderini
Via Cassia, 237 – Loc. Falciani 50023 Impruneta (FI)
Tel: 328 9613106
Email: elisastaderini76@gmail.com
ESTRATTO
Introduzione
Il mio risveglio arrivò un giorno
di primavera.
Solo un
mese prima lessi per caso (ho
imparato più tardi che il caso non esiste!) un paio di libri di Brian Weiss,
uno psichiatra americano che non avevo mai sentito nominare in precedenza. Mi
risuonavano tanto, li trovai fatti apposta per me. Così cercai notizie
sull'autore e scoprii che di lì a poco avrebbe tenuto un corso in Italia. E
bum! Feci le valige per Roma.
Non avevo
idea di cosa avrei trovato ne il perché mi sentissi così spinta a partecipare
al seminario, ma sapevo solo che dovevo esserci.
Senza
sapere come fossi approdata proprio lì, in mezzo a tutta quella gente in sala,
combattevo contro il mio scetticismo. Il lobo sinistro del mio cervello mi
gridava “ma che ci fai qui, sono tutti
matti!”, mentre il mio intuito cercava di rassicurarmi.
Quando le
luci si abbassarono, Brian ci invitò a chiudere gli occhi e dopo alcuni
profondi respiri potevo sentire solo la sua voce che ci guidava. Il mio corpo
si afflosciò contro lo schienale della sedia e sprofondai in una calma
pacifica. La mente si svuotava come una ciotola di riso dalla quale si
rovesciano fuori tutti i chicchi. Il battito del cuore rallentò, la sala sparì
completamente.
Mi sembrò di inspirare qualcosa di umido mentre l'aria si colorava di
nebbia. Fu allora che mi apparve indefinito un ponte sospeso nel vuoto che mi
invitava ad attraversarlo. Titubante, accennai un piccolo passo. Il legno del
ponte scricchiolò sotto al mio peso incorporeo, ma andai avanti. E più
camminavo, più la nebbia mi si spalancava portandomi dall'altra parte del
ponte, dove a un tratto
apparvero schizzi dorati che mi balenavano intorno.
Mi chiesi dove fossi finita.
Così abbassai lo sguardo sui miei piedi e notai che non avevo scarpe. Mi
osservai meglio. Portavo un'anfora sulla testa sorretta da una mano e
nell'altra tenevo un mazzolino di fiori celesti...
Le
regressioni sono uno strumento potente di guarigione con cui portiamo in
superficie ricordi di vecchi traumi, per poterli trasformare e lasciare andare.
Anche se per la mente critica questi ricordi sembrano cancellati, in realtÃ
sono solo sepolti nel profondo dell'inconscio. Possono essere eventi accaduti
durante l'infanzia, che in qualche modo ci bloccano, ma possono anche derivare
da esperienze fatte ben prima, in altri luoghi e in altri tempi.
È da qui
che nasce il libro che hai deciso di leggere, dal mio processo personale di
evoluzione e guarigione, dalla mia voglia di condividere quello che ho scoperto
proprio con te.
Voglio dirti che in te c'è molto di più del tuo corpo e della tua
realtà . Voglio farti sapere che sei un essere di luce, che hai infinite
possibilità e un grande potere.
Elisa
1. Prologo. Firenze, maggio 2005
Stress.
A volte
sentiva comprimersi le proprie onde mentali, tanto da implodere sorde su se
stesse. Quella sgradevole sensazione improvvisa, la chiamava stress.
Le dense
giornate venivano scandite dalla stesura di ar-ticoli, riunioni, appuntamenti
con i clienti, affanni. Elena lavorava a ritmo esagerato. Era una donna sempre
pronta, allerta, un po’ irrequieta. Non si permetteva spesso il lusso di
rallentare, visto che il lavoro le dava uno scopo impor-tante.
La minuscola redazione era la sua ancora robusta
per arroccarsi sull’oggi che le impediva di rimuginare a vuoto nel passato. Non
voleva correre il rischio di fermarsi sulle emozioni di quel figlio che per
brevi momenti era stato suo. Perché ciò che è stato, non c’è più. Perché i
pensieri affioranti da lontano sono affilati come lame e fanno san-guinare.
È nel
passato pensò non c’è più e rigettò la testa china sulle bozze da pubblicare.
Era il
tramonto quando, sopraffatta dalla stanchezza, alzò lo sguardo verso la
finestra dell’ufficio. Nell’aria di inizio maggio si rincorrevano pollini di
neve che, appesan-titi, si accumulavano poi ai bordi delle strade. Proprio come
i suoi pensieri. Uno sull’altro, nella massa caotica della mente. Sbadigliò
mentre cercava nella borsa un anal-gesico. L’emicrania quella volta sembrava
volesse proprio inchiodarla. Decise di aver superato il limite di
sopporta-zione e se ne andò via.
Arrivata
a casa, si regalò finalmente il meritato relax.
Avvertiva
una mano invisibile che le straziava lo sto-maco bloccandole i respiri a metà ,
quando in bagno andò a preparare la vasca. Presto la stanza fu immersa in una
nu-vola di vapore.
Elena rimase immobile a fissare l’acqua mentre
ascolta-va il lento scrosciare dalla doccia. Lo specchio davanti al lavandino
già gocciolava appannato, infilò i piedi nel mor-bido manto mielato e accolse
benefica la calda trasparenza che le scorreva addosso, arrossandole la pelle.
Tra il
profumo della schiuma che si rigonfiava e il mas-saggio del getto sul collo, si
lasciò avvolgere dal tepore, mentre assaporava con piacere il distendersi dei
muscoli. Avvertì le tensioni nel corpo che si allentavano e si accor-se con un
sorriso che il dolore alla testa era svanito. Si sentiva più tranquilla, era al
sicuro nella sua oasi. Dopo poco l’acqua raggiunse il livello massimo. Allora
chiuse il rubinetto e si abbandonò distesa nel silenzio, rapita dai suoi stessi
respiri sempre più profondi.
A un
tratto le parve di udire una voce.
«Ricorda
il nostro piano. Tornerò ancora per unirmi a voi e risolveremo tutto.»
La donna si riscosse. L’aveva sentita, ne era
certa. Si sforzò di non credere di essere diventata pazza. Spalancò gli occhi e
si guardò attorno spaesata. Ma tutto era rimasto identico. L’acqua continuava a
fumare, mentre il vapore si addensava al soffitto. Abbassò le palpebre e
inspirò di nuovo. Con calma.
Tu sai. L’hai
sempre saputo. Permettiti ora di ricorda re, lasciati guidare verso la verità .
Si levò
una brezza leggera. Sulla sua scia, l’aroma di corbezzolo giocò a nascondersi
in mezzo alla boscaglia, tra le campanelle bianche che ne incorniciavano i
frutti succosi. Le onde cristalline si misero in gara per raggiun-gere la
spiaggia già molto calda. E alla fine della corsa, sbriciolate nella spuma,
arretrarono sconfitte nell’immenso Mediterraneo.
Più in
alto sulla scogliera, quasi a voler spiccare il volo, il tronco secolare del
ginepro allungato verso il mare si la-sciò accarezzare sinuoso lungo i rami
dondolati dal vento. Quel vento che si divertì a baciargli ogni foglia
appuntita, odorante di salsedine e pazienza. Quel vento che spettinò i cespugli
di rosmarino e di mirto, mentre ne diffondeva l’intenso profumo legnoso.
Come una
ninfa sbarazzina, Kulia amava giocare. Era brava a nascondersi, schizzava
dietro gli alberi fitti della foresta e diventava uno tra i rami. Oppure
scivolava furti-va in qualche anfratto lungo la via delle scogliere, nascosta
dai magnifici oleandri bianchi, immobile come la roccia. Per gli altri bambini
era davvero difficile scovarla.
Le
piaceva anche arrivare giù fino al mare per tuffarsi. Ma a volte preferiva
starsene a occhi chiusi sulla riva men-tre in silenzio ascoltava il crepitio
dei ciottoli levigati, ri-succhiati lentamente dalla lieve risacca.
La sua
casa si trovava alle pendici di montagne dalle cime sempre innevate,
troneggianti sul caldo mare del sud, una distesa limpida popolata di delfini
che guarda lontano alla Fenicia.
Per la
piccola non esisteva posto più bello di Tuti, il suo
tranquillo villaggio isolato immerso nel verde dei
boschi, sorvegliato dalla presenza invisibile delle figlie alate della Dea.
Una
mattina d’estate, mentre si recava al ruscello, Kulia notò un giovane moro
avviarsi sul sentiero dei pascoli alti, seguito dal gregge.
Il
ragazzo era già abbastanza grande per lavorare. In-crociò lo sguardo della
bambina. Si fermò, le sorrise.
«Mi
chiamano Ilos.»
Kulia
diventò una statua. Lo fissò dritto negli occhi. «Ti va di venire in cima con
me? Sto andando lassù»
proseguì indicando il cielo.
Kulia si
riscosse e posò a terra la piccola anfora che portava sulla testa.
«Non ce
la faranno mai le tue pecore. Non è possibile arrivare così in alto,
figuriamoci col gregge. Come pensi di fare?»
«Lo so. È
difficile, ma continuerò a provarci. E un gior-no riuscirò a spingere quelle
pigrone lassù fin dove si toc-cano le nuvole. Allora sarò davvero felice»
rispose Ilos fa-cendole l’occhiolino. E aggiunse: «Sarebbe bello arrivare sulla
vetta insieme, quel giorno».
Riprese
il cammino e sparì tra i bassi cespugli mediter-ranei.
Da
allora, ogni mattina Kulia tendeva l’orecchio, ansio-sa di scorgere Ilos dagli occhi
nocciola. Quando sentiva belare delle pecore, sgusciava fuori casa sperando di
po-terlo vedere. E mentre lui passava, le sorrideva e le lascia-va una
margherita, una violetta o qualche campanula pri-ma di scomparire nella
macchia, seguito dal gregge.
Passarono alcune stagioni prima che Kulia fosse
ritenu-ta in grado di contribuire alla famiglia. Visto che il suo spirito
adorava di stare all’aria aperta e che tre sorelle già provvedevano ai lavori
di casa, le fu affidato il compito di
far pascolare il bestiame. Il primo giorno di
lavoro si alzò presto, per avviarsi con le capre ai pascoli sui fianchi del
monte.
Ilos se
ne stava disteso sull'erba, concentrato su una co-lonia di formiche. Una
farfalla gli sfiorò il naso, alzò lo sguardo da terra per ammirarne le ali
quando si rese conto che dal bosco stava arrivando qualcuno. La vide. Raccolse
in fretta piccoli fiori stellati intorno a sé e le corse incon-tro.
«Ce n’è
voluto di tempo per farmi seguire fin quassù! Cara, piccola Kulia, sei qui
finalmente!»
Le porse
un mazzolino di “non ti scordar di me”.
«Beh, ora
sono qui. E da oggi dovrò starci con le capre. Potrò tenerti compagnia» disse d’un
fiato.
«Ovviamente
se tu lo vorrai» aggiunse arrossendo, mentre portava al naso i delicati petali
azzurri.
Nei
giorni che seguirono, gli animali brucavano placidi mentre i ragazzi si
raccontavano storie, aneddoti diverten-ti, cosa piaceva loro e quello che
invece non sopportavano. I giochi preferiti, i fiori più belli e spesso
cantavano sulle lente note della cetra di Ilos o si rincorrevano a perdifiato
sul prato. La fanciulla amava intrecciare ghirlande di mar-gherite e immaginare
di indossare la corona di una qualche bella regina. Il giovane era capace di
guardarla estasiato a lungo. Come si adora la Dea. Quell’amore fioriva e si
raf-forzava alimentato dai sogni e dai progetti che facevano insieme.
Fantasticavano sui luoghi che avrebbero visto una volta imbarcati per mare. Su
dove avrebbero vissuto e su quanti bambini avrebbero avuto. Di certo sarebbero
stati insieme. Per sempre.
Una sera,
dopo aver riportato gli ovini al villaggio, mentre l’aria d’arancia matura si
sfumava in opache stri-sciate cremisi, Ilos cinse d’improvviso la ragazza.
«Non mi
va di lasciarti a casa di tuo padre. Convincilo
a farti uscire quando sarà nero, torniamo insieme
alla no-stra radura. Io e te» azzardò. «Ti prego!»
«Sarebbe
davvero molto bello mettersi a contare a turno ogni stella in cielo. Ma Ilos,
non mi permetteranno di re-stare fuori…» rispose scuotendo la testa, mentre sul
viso le si stampò un sorrisetto malizioso che contrastava l’eviden-te delusione
del ragazzo.
«Non ti
ho detto “no”» aggiunse. Gli fece l’occhiolino e corse a casa.
Quella
sera, la ragazza attese che la famiglia si addor-mentasse. Si alzò in piedi. Si
fermò la stoffa leggera sulle spalle con la spilla più bella e dopo aver
aggiustato le onde nere che ricadevano morbide sulla fronte, si avviò in punta
di piedi alla porta. L’aprì con cautela. Sgattaiolò via. Ol-trepassò l'ultima
casa in pietra del villaggio e raggiunse l'imbocco della strada che portava ai
pascoli, dove Ilos la stava aspettando impaziente.
Si
incamminarono lungo il sentiero illuminato dal tre-molante chiarore della
torcia. Si distesero sul prato. Rivolti al cielo ne ammirarono la grandezza. In
quel momento si sentirono davvero piccoli, ma comunque protagonisti di tutta
quell’assoluta bellezza. E al sicuro, mano nella mano sotto la coperta
intessuta di brillanti che li sovrastava, i loro cuori tamburarono all’unisono.
Le mani
si cercarono nel silenzio. Sui loro volti, l’alito tiepido della notte. Ilos
senza staccare gli occhi da quelli di lei, le aprì la fibula di bronzo sulle
spalle. Un leggero soffio e lo scialle scivolò. L’attirò a sé e la tenne
stretta nel silenzio. Soltanto i grilli e l’armonia del mare, che da lon-tano
si infrangeva sulle scogliere scoscese.
La Dea Madre regalò la voglia di baci profondi e
carez-ze sempre più audaci. Per loro nascose la luna, fin quando li fece
diventare un solo corpo. Allora lo spirito di entram-bi raggiunse le più alte
vette del cielo, fondendosi con la
Kulia non
poté trattenere una lacrima di gioia. Quando planò di nuovo sul mondo,
stringendolo forte, implorò Ilos di non abbandonarla mai.
Il suo uomo le prese il mento tra
le dita, la guardò dritta negli occhi: «Giuro che sarò sempre con te. Sempre».
Maria era intenta a montare il burro nella zangola,
il giorno del compleanno della figlia maggiore, che compiva già tredici anni.
Se Dio vuole, oggi si festeggia.
Non ne posso più di piangere disse tra sé continuando a
sbattere, ecco l’occa sione buona per
non rimuginare sulle nostre miserie. Ov via.
Qualche
ora di leggerezza avrebbe certo giovato a tutti i suoi figlioli. Perfino al
marito che ormai sembrava aver perso ogni speranza.
La
terribile gelata dell’Arno e della Pesa di due anni prima, li aveva messi tutti
in ginocchio. E la neve del lun-go inverno appena passato si era sciolta da
poco, lascian-dosi dietro solo campi devastati e speranze distrutte. La povera
gente soffriva la fame ogni giorno di più.
Ma almeno
per oggi, Maria voleva starsene serena. E allora continuava indaffarata il suo
lavoro nell’unica gran-de stanza al piano terra, la cucina. Intonò una canzone
al-legra, mentre gli ultimi arrivati, i due gemelli, se ne stava-no nel cesto a
dondolare, sospesi alla robusta trave del so-laio.
Intanto,
sul focolare di pietra, la focaccia di grano dora-va piano mentre l’aria si
riempiva del suo fragrante profu-mo. E nel vecchio calderone di terracotta, la
zuppa di rape sobbolliva lenta assieme agli straccetti di lepre. Il tocco in
più della festa. Una minestra saporita per saziare le pance.
La donna
assaggiò il burro.
È venuto
un capolavoro si disse, me lo immagino giÃ
Si
avvicinò all’asse di legno dove stavano le provviste e aspirò a pieni polmoni l’odore
invitante del formaggio
marzolino.
Ci siamo, forma! È arrivato il tuo momento.
Finalmen te ti affetto e scopriremo se e quanto sei diventata buona.
Ne
sistemò alcune fette sulla tavola. Accanto aggiunse
il miele.
Com’è dolce. Uhm… buono e si tuffò di nuovo nel pec-caminoso barattolo. Rigirò ancora il dito
nel denso nettare appiccicoso e se lo portò alle labbra per assaporarne con
calma il
prezioso gusto sulla lingua.
Meno male che Ruggero è riuscito a scambiarlo
con due brocche di latte pensò ancora estasiata. Poi lo
provò
zuppando
nel vasetto uno spicchio di cacio.
Oddio…
son arrivata in paradiso!
Si pregustava la cena tanto ricca, mentre con gli
occhi della mente rivide orgogliosa la sua famiglia. Aveva otto figli insieme
al buon Ruggero. L'ultimo era in pancia. Amava considerarlo come la numero otto. Sperava tanto che
potesse essere una sorella per la sua primogenita.
«Ottavina.
Ti chiamerò proprio così» disse mentre si accarezzava il ventre.
Erano già stati benedetti con sei maschi forti e
intelli-genti. E anche se fossero stati costretti a cercare una se-conda dote
per un’altra figliola, Maria pregava lo stesso la Madonna di poter partorire
una bambina, bella come Fiore.
Diventata
un fiore di nome e di fatto, la ragazza era sbocciata graziosa, dalle forme morbide
con folti capelli neri. Sembrava più grande della sua età . Gli uomini aveva-no
iniziato a guardarla con altri occhi, perché i seni turgidi si erano
trasformati in un ingenuo richiamo.
Ma il suo
carattere non era altrettanto amabile, forse a
causa di una profonda insoddisfazione. Non
accettava il suo esser nata femmina, lei che di indole era ribelle. So-gnava
quella libertà che non le sarebbe mai stata concessa, proprio perché donna.
Fin da
piccola, era sempre stata circondata dalle grida dei fratelli. Non aveva mai
tempo per raccogliere i propri pensieri in pace. Almeno quei monelli potevano
sceglier-seli, i giochi. Facevano cose divertenti dopo aver aiutato il babbo
nei campi. Come Guido, più giovane di un anno, ma libero di andarsene a zonzo senza
che nessuno lo sgri-dasse. Una volta arrivò addirittura a Firenze insieme al
fra-tello Vieri.
Fiore avrebbe fatto di tutto per poter giocare al
civetti-no, al sole in paese.
È un’ingiustizia. Perché le
femmine non ci possono giocare? Son sicura che se sfidassi quei maschiacci, li
pe sticcerei a dovere. E li batterei. Certo, se solo mi lascias sero provare.
Ma la sua
vita era limitata al cucire per tutti, mungere le capre e governare le galline.
Toccava a lei recarsi al tor-rente a lavare i panni e badare a tutti i mocciosi
di casa. Ecco cosa ci si aspettava. Con la madre sempre lì a dirle cosa doveva
o non doveva fare. Quando e come.
Ah, se
solo avesse potuto nascere maschio! Un giorno avrebbe deciso dove andare, cosa
dire, chi seguire.
Si
sentiva soffocata in una sottana tanto stretta da non respirare. Fin quando un
uomo sarebbe comparso per re-clamarla in moglie. Allora quella sottana le
avrebbe reciso le carni della vita a furia di stringerla.
Immersa
in questi pensieri, giocherellava con i suoi ca-
pelli
lisci davanti al pozzo.
No. La
cambierò questa vita. Ora.
Afferrò il secchio, lo svuotò e si precipitò dentro casa. In cucina, la
mamma era affaccendata intorno alla tavo-
la, vanto e orgoglio di Maria. Era il dono di nozze
dal ma-rito, abile a intagliare il legno quanto ad arare e mietere i campi. La
piccola Fiore amava starsene lì seduta di sera quando, dopo aver mangiato, il
babbo raccontava storie di battaglie tra cavalieri.
Prese un
bel respiro.
«Madre,
vorrei andare in città . Voglio vivere un’avven-tura, voglio vedere il mondo,
voglio sentirmi viva. Per fa-vore.»
Maria la
guardò perplessa. Sembrava non aver capito bene. Poi si riscosse.
«Fiore
non credo sia proprio il caso. Lo sai. Ma che av-ventura? Che storia è questa?»
«Madre
non sono più una bambina. È il regalo che vor-rei per il mio compleanno.
Accontentami ti prego» sbatté le sue lunghe ciglia nere in uno sguardo da
cerbiatto man-sueto.
«Ãˆ una
così strana richiesta. Perché vorresti andare via figliola?»
«Madre
non conosco altro che questa casa e il ruscello. Ho bisogno di vedere cosa c’è
oltre. Com’è fatta la città ? Quella vera intendo.»
«Cara
bambina, a me lo chiedi? Non ne ho proprio idea. Sono nata qui io, mica a
Firenze!»
«Per me è
importante saperlo. Davvero.» Maria l’abbracciò.
«Se è
così allora, stasera quando il babbo tornerà dai campi, sentirò cosa ne pensa.
Vedremo.»
E
sorrise.
1 Commenti
Ciao Martiii <3 ^^
RispondiEliminagrazie per questa segnalazione!!
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